La normalità è un concetto astratto, ha a che vedere con la media, con le statistiche e con la frequenza. Io ho smesso di usarla, sia come concetto che come parola, perché non ci credo. Non credo esista una “normalità” a cui riferirsi, non credo alla conformazione degli individui e delle abitudini, non credo ai paragoni. Credo che questo cambiamento nella mia epistemolgia abbia molto giovato sia a me come persona che al mio lavoro.
Pensateci bene, solo 100 anni anni fa era normale mettere della morfina nello sciroppo per la tosse dei bambini, era normale vendere la cocaina in farmacia. Solo 50 anni fa era normale che i bambini facessero le sassaiole tra di loro, che giocassero con la polvere da sparo. Se non vogliamo spostarci nel tempo, ma nello spazio, in Arabia Saudita è normale condannare a morte un omosessuale, o in Iran è normale lapidare un’adultera. La normalità è insomma un concetto fortemente condizionato dal tempo e dallo spazio, è un concetto troppo variabile per essere di qualche utilità. Non credo sia neppure una meta suadente per chicchessia. Credo quindi che non dovremmo mai riferirci alla normalità come aspirazione clinica.
Parliamo piuttosto di benessere e di rispetto, sia per sé stessi che per gli altri. Se poi quello che facciamo o pensiamo, ci fa stare bene e non nuoce a nessuno, chi se ne importa se non ci fa apparire come “normali”?
Viviamo in un tempo pericoloso, in cui il giudizio degli altri spesso resta ad imperitura memoria nella coscienza collettiva di internet, siamo tutti alla costante mercé dell’immotivata (e spesso crudele) opinione altrui e non c’è difesa se non quella di emanciparsi dall’incubo della media e cominciare a vivere consapevoli che di “normalità” ce ne sono tante quante persone popolano questo pianeta.